Rosa Balistreri, un’attivista con la chitarra

Rosa-Balistreri

«Bambina, scalza, povera, donna, madre perché Rosa Balistreri è un personaggio favoloso, direi un dramma, un romanzo, un film senza volto». Così il poeta Ignazio Buttitta aveva detto di lei dopo averla sentita cantare una sera a Firenze, alla fine degli anni 60. Il suo canto «strozzato, drammatico angosciato che pareva provenire dalla terra arsa di Sicilia» aveva incantato e sorpreso tutti,  intellettuali come Dario Fo, Mario de Micheli, artisti come Renato Guttuso, scrittori come Andrea Camilleri, accademici, ricercatori, giornalisti. Ai suoi piedi, letteralmente, sedeva il gotha della cultura di un paese intero che, da nord a sud, stava provando, non senza vittime e brutture, a cambiare pelle.

Rosa Balistreri era avanguardia quando avanguardia significava impegno, audacia, lungimiranza, onestà, ma anche solitudine e fatica . Ben oltre le mode e i vezzi stilistici, la sua musica era una verità così atroce e profonda da risultare attuale ancora oggi, a distanza di quasi mezzo secolo. Fu la prima donna, di certo la prima siciliana, ad imbracciare una chitarra e a cantare di schiavi e padroni, di mafia, politica, chiesa come trittico infernale, a puntare il dito contro uomini violenti e donne umiliate, stuprate, uccise, la prima a raccontare una Sicilia bellissima eppure meschina e sottomessa.

«Si può fare politica e protestare in mille modi, io canto. Ma non sono una cantante, sono diversa, diciamo che sono un’attivista che fa comizi con la chitarra».

Diversa, sì, perché diversa fu soprattutto la sua vita. Un’esistenza dolente, sfortunata, drammatica a cui, tuttavia, non si piegò mai, rispondendo alla sofferenza e alla morte con una dignità e una volontà uniche. Rabbiosa e indomita, certo, ma mai fuori misura.

Rosa ha conosciuto la miseria fin da piccola, costretta dalle condizioni precarie della sua famiglia – un padre alcolizzato, un fratello paraplegico, una madre e due sorelle cui badare – a lavori umili e faticosi, di inverno nei mercati a pulire pesce e d’estate nei campi a spigolare. A 15 anni era ancora analfabeta, ma imparò presto, da autodidatta, la forza salvifica delle parole, le ripescò, le parole del suo dialetto, tra le note che non sapeva neanche di conoscere.  E la musica la tenne in piedi di fronte ad un marito violento, al carcere, agli abusi, al tradimento, alla perdita, quella di un figlio, nato da false promesse, della sorella, uccisa dall’uomo da cui aveva cercato di separarsi, e del padre, suicida per troppo dolore. Le diede il coraggio di lasciare la Sicilia e poi di ritornarci, di accettare che la disgrazia si impigliasse tra le pieghe della sua esistenza, senza però mai permettergli di deciderne il ritmo e l’andatura.

Arrivò a San Remo, girò il mondo, quella piccola bambina licatese senza scarpe, Germania, America, Svezia e quando morì nel 1990 per un ictus sembrò portarsi via anche un’intenzione, quella di rendere la musica strumento di denuncia e di riscatto per gli ultimi, dimenticati, ignorati e maledetti. Eppure, la sua vita e il suo lavoro, impossibile distinguerli, sono riusciti ad influenzare intere generazioni di artisti, non solo siciliani. Brani, come Cu ti lu dissi e Terra ca nun senti, si suonano ancora, perché Rosa riusciva a cantare l’umanità senza trucchi o imbellettamenti. Da Noa a Carmen Consoli, passando per Paola Turci, Alfio Antico, Emma Dante, Nada, Carmelo Salemi, che giovanissimo, ha avuto la fortuna di duettare con lei poco prima della sua scomparsa, e Simona Di Gregorio, che le ha reso omaggio cantando ed elaborando gli arrangiamenti di “Dedicato a Rosa Balistreri”, album inciso dal gruppo I Beddi, di cui era fondatrice.

«Ogni volta che cercheremo le parole, i suoni sepolti nel profondo della nostra memoria, quando vorremo rileggere una pagina vera della nostra memoria, sarà la voce di Rosa che ritornerà a imporsi con la sua ferma disperazione, la sua tragica dolcezza».